Qualche giorno fa ho avuto modo di scontrarmi con una realtà di cui, sino a quel momento, mi ero interessata per lo più marginalmente: il rispetto nei confronti dei rider.
Categoria che, da una parte ancora desta preoccupazioni per l’andamento tribolante di un controllo deciso e sensato da parte di chi di dovere (basti pensare ai tira e molla tra i sindacati, Assodelivery e UGL) (in generale, forse è meglio non pensare a AssoDelivery e UGL), mentre dall’altra – quella delle persone comuni che si ricordano della loro esistenza giusto per ordinare la pizza il sabato sera o quando li vedono fare slalom tra le macchine in corsa – per lo più ignorata.
Durante lo scambio di battute intavolato tramite social, ho compreso meglio quanto in Italia i diritti siano una questione di classe, di élite, ma soprattutto che il mondo del lavoro si divide in due categorie maggiori, dove la prima è difendibile e la seconda assolutamente no.
Per chiarire:
Prima categoria: tutti tranne la seconda categoria (vedi la voce “seconda categoria”).
Seconda categoria: rider.
Perché? Perché i secondi vivono accettando e amplificando l’impazienza della clientela, di cui si rendono sia schiavi che, loro malgrado, artefici.
Qui vi sarebbe da disquisire in merito al bisogno spasmodico della società di rendere tutto “immediato” (dalla più banale evoluzione che dalla lettera scritta ha portato alla messaggistica istantanea sino all’ideazione di Amazon da parte di un uomo che ha saputo creare un bisogno quasi malato e allo stesso tempo soddisfarlo facendo ammalare la società).
Altra motivazione che mi sento di condividere riguarda più un sentimento non detto ma da molti (tutti) provato: quello di ergersi da clienti a Padroni di un novero di persone (da qui nasce il senza tempo “il cliente ha sempre ragione” e che vede spesso seguire l’immancabile “senza di me tu non lavori”), cosa che nel caso dei rider sembra acquisire doppio valore.
Ritornando al primo gruppo, infatti, si pensa che vi appartengono tendenzialmente lavoratori dipendenti la cui responsabilità e salvaguardia è in capo all’imprenditore di turno e verso al quale, in caso di sfruttamento, si è sempre pronti a puntare il dito. I rider, dal canto loro e quando non sono effettivamente regolati dal CCNL in qualità di dipendenti, sono di chiunque li chiami per una consegna e, se questa è particolarmente ostica (vedi, ad esempio, condizioni meteo avverse) non c’è alcuna scusante al ritardo.
Il cliente, in quel momento, può assumere un comportamento dittatoriale di cui bearsi a fronte del potere dato dall’idea che chi gli porta il cibo è uno schiavo a cui, addirittura, si può dare una mancia o un sorriso in risposta (rimando, per completezza a quanto scritto nelle loro pagine Facebook e LinkedIn da Cathy La Torre e Francesco Casarella ) se e quando è particolarmente efficiente.
Certo è un po’ comico pensare che magari, sino a cinque minuti prima, lo stesso cliente condannava davanti al telegiornale l’ultimo episodio di caporalato (che avviene sempre ed esclusivamente al Sud, mai al Nord) (Grafica Veneta è stata chiaramente una allucinazione collettiva).
Qui ho poco interesse nello scrivere dei fattorini contrattualizzati e mi riservo di farlo in futuro. Piuttosto evidenzierei quelle situazioni in cui i dipendenti non sono realmente tali e il lavoro si sviluppa a colpi di cottimo.
E ricordiamolo, perché non lo si fa mai abbastanza: il cottimo nella maggioranza dei casi è illegale ed è sacrosanto che lo sia, in quanto i pagamenti vengono assicurati solo in base alle prestazioni (in questo caso le consegne) concluse.
Ciò comporta un rischio notevole per un intero ordine di Persone che non solo lavora in mezzo al traffico ma anche a prescindere da quelle che sono le condizioni in cui vertono sia loro che l’ambiente in cui si muovono (mediche, stradali, meteo).
Ne consegue una necessità di sensibilizzazione nei confronti di chi, per assicurare un servizio in linea di massima impeccabile, è costretto a rischiare più di altri nella totale indifferenza, se non proprio spocchia, di chi è convinto di avere a che fare con delle macchine, probabilmente.
Così come i media propongono giornalmente le difficoltà degli imprenditori, soprattutto nel settore della ristorazione, senza personale (Corriere della Sera, Il Gazzettino, La Repubblica, Il Quotidiano Nazionale, parlo di voi), sarebbe un buon inizio fronteggiare la realtà: il personale spesso c’è ma non si vede. E non è un trucco di magia ma una condizione che affianca la cecità sociale nei confronti di chi viene sfruttato a quella contrattuale che permette lo sfruttamento. E la prima è direttamente collegata alla seconda, se non intrinseca.
Quello che salta all’occhio, comunque, è una totale ignoranza nei confronti di questa categoria. Anche quando l’argomento lo si tratta vengono portate al cospetto dell’interlocutore frasi circostanziali ed inesatte come “se durante un temporale nessuno ordina per evitare a un rider di rischiare il collo sotto la pioggia, sicuramente questo ci soffre perché perde i soldi della consegna”.
Esatto esempio del perché, anche se fosse questo il caso – e non lo è più (circa) da quando vi è stata una regolamentazione in tal senso, il cottimo deve trovare una fine.
Il fattore denaro non deve mai e in alcun modo entrare nel contesto della sicurezza.
E il motivo è semplice: quello stesso ragazzo che per cinque euro in più si fa mezza città con il terrore di scivolare sulle rotaie bagnate di qualche tram potrebbe non arrivare neanche a fine turno. Con cinque euro in tasca e morto sull’asfalto.
Tutto questo è traducibile in “chi ordina tramite food delivery è un mostro”? Assolutamente no.
Quello che manca, però, è il rispetto. Il sostegno, anche tramite banale comprensione umana, alle lotte di chi sino a ieri non aveva neanche un diritto scritto e si è dovuto autoproclamate come meritevole di riconoscimento normativo o, in alternativa, sarebbe rimasto Invisibile tra gli invisibili.
In fondo, se durante il periodo del lockdown sono stati considerati essenziali altrettanto dovrebbero esserlo le tutele che ne permettono l’esistenza.
Di Ambra Danesin